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L'Alzheimer nelle Cure Palliative

In occasione del XXIII Congresso Nazionale della SICP (Società Italiana di Cure Palliative), la nostra collaboratrice Daniela Piola (operatore e insegnante Shiatsu) ha partecipato ad alcuni interventi specificamente orientati alle malattie neurodegenerative, all'Alzheimer e alle demenze di cui ci ha rilasciato un breve articolo. Tutto assume un maggior rilievo nel momento in cui la Federazione Alzheimer Italia è entrata a far parte della Federazione Cure Palliative unendosi alle 77 organizzazioni nonprofit che promuovono l'accesso a questo tipo di assistenza su tutto il territorio nazionale.

L'Alzheimer nelle Cure Palliative

Le Cure Palliative, secondo la definizione dell'Organizzazione mondiale della sanità, si occupano in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e la cui diretta evoluzione è la morte.

Obiettivo principale delle CP è dare senso e dignità alla vita del malato fino alla fine, alleviando prima di tutto il suo dolore, e aiutandolo con i supporti non di ambito strettamente medico che sono altrettanto necessari.

Gli obiettivi delle CP sono ben riassunti così:

• affermano il valore della vita, considerando la morte come un evento naturale;

• non prolungano né abbreviano l'esistenza del malato;

• provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi;

• considerano anche gli aspetti psicologici e spirituali;

• offrono un sistema di supporto per aiutare il paziente a vivere il più attivamente possibile sino al decesso;

• aiutano la famiglia dell'ammalato a convivere con la malattia e poi con il lutto.

Le leggi fondamentali per il movimento italiano delle CP sono due. La prima ha avuto come scopo principale il finanziamento degli Hospice[1] per favorirne la nascita e lo sviluppo (39/1999) effettivamente poi avvenuto negli anni 2000. La seconda legge ha invece voluto sancire l'istituzione della rete delle cure palliative, ovvero l'integrazione tra hospice e assistenza domiciliare (38/2010).


Quanto detto, a mio avviso, non riesce a rendere la bellezza e la complessità di questo "modello" di cura.

Le CP hanno negli anni passati trovato grande utilizzo e applicazione nel malato oncologico e credo anche nel paziente HIV, mentre molto meno nei pazienti affetti da malattie neurodegenerative. Infatti, anche se la legge garantisce l'accesso alle CP a tutte le malattie terminali, molti Hospice rifiutano l'accesso a chi non è oncologico. Una delle ragioni di questa realtà operativa risiede nella impossibilità di determinare con chiarezza il passaggio da una condizione di malattia ad una di terminalità. Nel paziente oncologico è possibile determinare questo momento di passaggio con maggiore facilità che per un malato di SLA o di Alzheimer. Esistono per il malato oncologico dei test di valutazione che hanno lo scopo appunto di stimare la prognosi e definire così natura e scopi delle terapie e determinarne la pianificazione. Le CP si sono di fatto specializzate nella cura e assistenza al malato oncologico e il medico palliativista è attualmente un esperto nella cura del dolore[2].


Per fare un esempio, attualmente il medico palliativista (e la sua Unità di CP) riceve una persona perché l'oncologo (professionista d'organo) decide che è arrivato il momento. Con un malato di Alzheimer questo non è possibile. Ma il problema è ben più ampio della malattia di Alzheimer perché viviamo in un'epoca in cui si sta parlando di Quinta età (un 75-80enne ha una possibilità molto alta di arrivare a superare i 90 anni) e il modello culturale-professionale dominante centrato esclusivamente sull'organo non è più adeguato. Il grande anziano è caratterizzato da una complessità di fattori e solo il 14% di queste persone muore di cancro. Quanti sono i professionisti chiamati a seguire un grande anziano? Il modello dominante insegue il protocollo d'organo e d'emergenza e non tiene conto dei sintomi minori più vicini alla qualità della vita, inoltre il singolo professionista d'organo non riesce ad avere una visione d'insieme. Troppo spesso si vedono anziani portati al pronto soccorso dalle RSA (spesso arrivano senza parenti, probabilmente senza un responsabile della RSA, e soprattutto senza una cartella che esprima il quadro di riferimento della sua condizione). In questi casi l'approccio tecnologico è inevitabile. L'approccio tecnologico vuole superare ogni limite definendo la morte come una malattia da debellare invece di considerarla il confine che definisce la vita nel suo complesso. Al congresso sono stati mostrati studi che dimostrano come ad esempio la nutrizione artificiale o la ventilazione meccanica non siano effettivamente un beneficio né per la sopravvivenza né tanto meno per la qualità della vita. La domanda è se con queste persone il goal è la sopravvivenza per quanto lunga sarà possibile o se è la qualità della vita per quanto breve potrà essere.

La collaborazione tra specialista d'organo e un palliativista aiuta una definizione "etica" della presa in carico. Esiste una fotografia clinica della persona (patologie d'organo) e una fotografia della visione palliativa (sintomi e stati d'animo).

Un problema è che le CP sono state tenute fuori dalla medicina perché considerate come un modello rivolto solo ed esclusivamente al fine vita, mentre nel futuro si deve pensare ad un “approccio progressivo palliativo". L'età adulta delle CP arriverà quando l'offerta di buone CP sarà integrata alle cure eziologiche. Il movimento delle CP non aspira a ottenere una specializzazione in medicina (attualmente infatti esistono solo dei master) perché il palliativista vuole uscire dal concetto di medicina parcellizzata. È piuttosto il modello, il pensiero pallitivista, che deve essere rivolto a molti professionisti. L'oncologo, lo psicologo, l'infermiere, il fisioterapista, l'operatore socio-sanitario e anche il volontario ... possono essere palliativisti. In questo senso potranno esserlo anche il neurologo o il geriatra!


Non esiste una cultura della palliazione nell'ambito delle demenze perché queste non vengono percepite come "terminali" ma come un naturale processo di invecchiamento. Ma il problema è che seppure molto lentamente l'evoluzione del quadro clinico porterà verso una situazione di perdita della capacità di esprimere la propria volontà in forma libera e consapevole. E allora quando c'è bisogno di CP nelle malattie neurodegenerative? Ovviamente non appena si manifestano i primi segni di perdita delle capacità cognitive.

La medicina palliativa mette al centro la persona con i suoi bisogni, aspettative, desideri coniugando approcci interdisciplinari, confronto continuo, rigore scientifico e umanità, modelli organizzativi sicuri ma flessibili. Ma anche e soprattutto è necessario aiutare il paziente e la famiglia a definire un personale "progetto di vita" che comprenda le sue condizioni cliniche e le scelte di sopravvivenza. Fondamentale è una comunicazione chiara ed efficace non solo rispetto alla diagnosi ma anche rispetto alla prognosi: comprendere l'evoluzione della malattia serve al soggetto malato per scegliere il proprio percorso chiedendo di evitare interventi salvavita all'ospedale che spesso possono prolungare di poco la vita mantenendola però a condizioni di bassissima qualità. Ma chi può mettere in atto questa comunicazione chiara? La cosa più naturale sarebbe che lo facesse il medico di base, il geriatra o comunque il medico specialista che la tiene in cura[3], ma spesso la difficoltà di affrontare temi duri in un momento in cui la persona è ancora sana fa sì che nessuno di fatto si faccia carico di questo delicatissimo passaggio. Un medico palliativista è formato e preparato anche per superare questa difficoltà. Negli interventi del congresso più volte si è accennato alla possibilità di definire la modalità di raccolta e registrazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) con le quali i cittadini possono esprimere in via anticipata la loro volontà di sottoporsi o meno a trattamenti sanitari.

Questo tema è fondamentale perché spesso (sono stati mostrati dei dati) scelte salvavita sono portate avanti perché nessuno (familiari e/o medici) si assume la responsabilità di rifiutare un intervento tecnologico in una condizione d'emergenza.



In conclusione ritengo che ci si debba impegnare, personalmente e come associazione di riferimento, affinché la cultura delle CP si diffonda nell'ambito delle demenze e dell'Alzheimer almeno tanto quanto si è radicata nell'ambito dell'oncologia. Seppure, bisogna dire, che delle CP si ha per lo più una visione ancora sbagliata perché il termine palliativo è assimilato al termine placebo, quest'ultimo è però riferito ad un farmaco privo di principi attivi e il suo eventuale effetto positivo risiede nella fiducia che la persona vi investe (effetto placebo), mentre palliativo si riferisce alla cura dei sintomi là dove non è più possibile la cura delle cause, ma sappiamo quanto certi sintomi possono essere invalidanti sul piano fisico, psichico, spirituale, sociale e dunque il valore delle cure palliative non è affatto da sminuire ma da conoscere e apprezzare sempre di più.




[1] L'Hospice è la struttura residenziale in cui il malato inguaribile e la sua famiglia possono trovare sollievo per un periodo circoscritto e poi fare ritorno a casa o per vivere nel conforto gli ultimi giorni di vita. L'Hospice non è luogo "dove si va a morire", ma a vivere al meglio una fase naturale della propria esistenza (terminale di una malattia incurabile), e dai cui è sempre possibile tornare alle cure domiciliari, quando questo non è impossible in via temporanea o definitiva.


[2] Il paziente oncologico è caratterizzato dal dolore che è stato definito "totale". Quando il dolore non è più soltanto un sintomo, un campanello d’allarme, ma diventa cronico, insistente, sconvolgente nel fisico e nella mente, il dolore diventa una “malattia” vera e propria, a sé stante, e come tale va affrontata, con le sue regole, i suoi imperativi diagnostici e le sue strategie terapeutiche.


[3] La Cartella clinica è lo strumento più adeguato, state anche la sua configurazione giuridica, a documentare la volontà del paziente, nel suo dinamismo evolutivo, in merito all'eventuale rifiuto motivato di un determinato trattamento.

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